L’alibi e i buuuu

Roberto Beccantini26 dicembre 2018

Sarà contento De Laurentiis, anche se quel «cattivone» di Mazzoleni c’entra poco. Espulso Koulibaly, il migliore in campo, ed espulso Insigne, uno dei peggiori, provocato o non provocato da Keita: troppo caricati, dal presidente, a conferma che gli sproloqui offrono alibi, non stimoli. L’applauso di Kouliblay ne è il segno più evidente, al di là di un giallo che ci stava e al di qua dei «buuuu» razzisti che parte del pubblico gli aveva rivolto (in quel momento e già prima, con tanto di richiamo dello speaker). Era un applauso diretto agli incivili, come sostengono i napoletani? Sinceramente credo di no. Di sicuro, Koulibaly non era sereno: e non certo per colpa sua. Non è stato, comunque, Mazzoleni ad alimentare il nervosismo o orientare il risultato. L’arbitro ha commesso un solo errore: il mancato rosso a Keita.

E così Inter uno Napoli zero dopo che l’Inter aveva dominato il primo tempo (con traversa chilometrica di Icardi al pronti-via) e il Napoli stava controllando la ripresa. Calcio, mistero senza fine bello. Nel citare la «parata» di Asamoah su Zielinski quando mancavano pochi spiccioli e si era ancora sullo 0-0, non si può non riandare alla gaffe con la quale il ghanese spalancò la finestra al Psv e chiuse la porta della Champions all’Inter.

La squadra di Ancelotti era in dieci. Spalletti ha azzeccato i cambi: cross di Keita, velo di Vecino, gol di Lautaro. Tutti e tre dalla panchina. Peccato quel finale così da Bronx, così poco natalizio, dal campo al pubblico. Ancelotti si era inventato Callejon terzino, alla Cuadrado (dunque, alla Allegri). Joao Mario, Icardi e Borja Valero avevano preso possesso del centro del ring. Perisic, lui, è scomparso a metà partita: gli capita spesso. Asamoah è stato grande fino alla fine. Come lo sarebbe stato Koulibaly, già salvatore su Icardi, senza l’ira funesta di quell’attimo.

Una minoranza di qua, una minoranza di là: il razzismo non molla.

Boxing dea

Roberto Beccantini26 dicembre 2018

Dal «Boxing dea» è uscita un’ordalia molto inglese, come inglese è l’Atalanta, ed è stata la Juventus, imbattuta in trasferta nell’anno solare, un pareggio dopo otto vittorie, terzo 2-2 a Bergamo in tre stagioni.

Paradossalmente, la squadra di un isterico Allegri ha cercato più il successo in dieci che non prima, quando il regalone di Djimsiti le aveva spianato la strada e la parata-di-Berisha-più traversa, su lecca di Bentancur, dischiuso scenari golosi. Bentancur, già. Il doppio giallo è stato una sciocchezza e, visto che siamo in tema, una delle rare scelte azzeccate dal pessimo Banti: pessimo, perché pensa che a non fischiare (su Pasalic, persino) ci guadagni lo spettacolo.

C’erano assenti illustri da una parte e dall’altra, ma la rosa di Madama è una rosa dalla quale il suo allenatore (e persino il garzone della macelleria all’angolo, avrebbe scritto il grande Giuseppe Pistilli) ha potuto estrarre Pjanic e Cristiano. Cristiano che poi ha pareggiato, di testa, su angolo calibrato dal bosniaco. A proposito: Bentancur-Emre Can-Khedira (al rientro), febbri e rotazioni avevano consegnato il centrocampo a una indicibile carenza di geometrie.

L’Atalanta è una ciurma di pirati, con Zapata in condizioni strepitose. Si era già mangiato Bonucci a Udine: sapeva, dunque, come usare coltello e forchetta. E, sul secondo gol, ha ribadito di essere cresciuto anche sul piano dell’opportunismo.

La partita è stata selvaggia, con le squadre che si sono annusate e graffiate dall’inizio alla fine. A Gasp piacciono il pressing sfuso e le marcature ad personam, in barba ai puristi del salotto acconto. E’ così che si è costruito un nome, uno stile.

Della Juventus, che aveva ricavato arrosto dalla sinistra (Alex Sandro-Douglas Costa) e fumo da Mandzukic, rimane il mistero Dybala: tuttocampista sembra un sinonimo, ma di cosa?

Mandzukic d’inverno

Roberto Beccantini22 dicembre 2018

Sarebbe stato un delitto sprecare un primo tempo così. Tre paratone di Olsen su Alex Sandro e Cristiano; nove calci d’angolo in una ventina di minuti; pressing a ondate, senza se e senza ma, roba da Manchester City. Ma un gol, uno solo: la capocciata di Mandzukic, su cross di De Sciglio, con Santon letteralmente schiacciato.

Era una Roma ferita e decimata, una Roma raccolta attorno alla «garra» di Zaniolo e al piccolo mondo antico che Manolas teneva su a spallate. Non sembrava neppure una squadra di Allegri, avranno brontolato gli «anti». Fatto sta che se giochi a quel modo, e raccogli la miseria di un golletto, rischi di esporti ai capricci del destino e all’istinto di sopravvivenza degli avversari.

Così è stato, puntualmente. Alla ripresa, Madama non poteva non calare (sono uomini, non robot), la Roma non poteva non osare. Di Francesco ha sguinzagliato Kluivert, Perotti e Dzeko, si è impossessata del possesso palla ma non dell’area, e Madama, pur abbassando il baricentro, è andata vicino al raddoppio con il marziano, murato da Olsen (che con il Genoa aprì il mar Rosso e allo Stadium l’ha chiuso) più di quanto la Roma al pareggio.

Nelle trattorie e fra i bar si discuterà dell’ennesima metamorfosi della Tiranna. Rimane, da non trascurare, il senza voto a Szczesny, di cui non si ricorda che un tuffo, agli sgoccioli, per i fotografi, povere anime intirizzite.

Mandzukic è ormai il totem attorno al quale balla tutta la tribù e Dybala un distributore seriale di traiettorie. L’asse portante rimane la coppia Chiellini-Bonucci, i docenti di Harvard (Mourinho dixit).

Ai collezionisti di episodi giro un Nzonzi molto vicino al secondo giallo e due gol annullati. Alla Juventus. Per carica di Chiellini al portiere, il primo; per pestone pregresso a Zaniolo, il secondo (di Douglas Costa, su assist del Cristiano «tuttocampista»). Non sono gradite avantologie. Buon Natale.